18.09.2017 - Didattica
Cibo e clima: il paradigma di Slow Food

«Una delle prime cause del cambiamento climatico è il sistema alimentare, in cui l’agricoltura, la produzione alimentare, il trasporto e la commercializzazione consumano più energia proveniente da carburanti fossili di qualsiasi altro settore industriale». Questo è uno degli assunti principali del Documento di Posizione pubblicato da Slow Food insieme agli appelli per la policy making delle Cop21 di Parigi, 22 di Marrakech e per l’imminente Cop23 di Bonn. E questo è anche il nucleo di uno studio che sarà presentato a breve da Slow Food sotto la direzione del meteorologo e climatologo Luca Mercalli.

 

Jacopo Ghione, Slow Food

Ne abbiamo discusso con Jacopo Ghione, responsabile dei progetti internazionali di Slow Food, dirigente del progetto Arca del Gusto e coordinatore delle campagne Slow Meat e Clima per la fondazione Slow Food per la biodiversità: «Slow Food si impegna da sempre contro la perdita di biodiversità vegetale e animale, le monocolture, l’agricoltura industriale. Abbiamo scelto di affrontare concretamente il tema dell’emergenza sul clima, preoccupati dalla velocità con il quale avviene il cambiamento. Abbiamo deciso di fare attenzione alle interazioni tra clima e sistema alimentare. Non da un punto di vista scientifico, perché non siamo scienziati, ma tenendo in considerazione tutta la letteratura prodotta su questi argomenti e valutandoli dal punto di vista della produzione alimentare e di tutta la sua filiera».

Il 30 per cento delle emissioni di gas serra proviene dai processi per la produzione del cibo e dalla polluzione animale: «Il sistema è quindi vittima, ma anche causa del cambiamento climatico. Non solo. Noi pensiamo che possa anche essere parte attiva della soluzione: Lo studio che presenteremo con Mercalli affronterà proprio alcune di queste soluzioni. Siamo partiti da una vasta letteratura sul tema per proporne le migliori. Penso ai principali impattanti sull’ambiente, come l’uso di derivati del petrolio per i diserbanti. Quello a cui ci siamo paurosamente abituati è un sistema con troppe macchine, un sistema energivoro, che provoca anche un grande spreco di acqua».

«Bisogna lavorare a un modello valido per l’ambiente e per il sociale, vogliamo dire basta alle condizioni dei piccoli produttori, costretti a sottostare ai colossi, con un meccanismo che permette a mere dinamiche di mercato di fare il prezzo. I costi di questo sistema ricadono sulla salute di tutti».

Cosa fare per contrastare questa deriva? «Lavoriamo con i produttori per aiutare e tutelare prodotti a rischio scomparsa, per esempio. E dobbiamo comunicare per sensibilizzare le persone e arrivare al colloquio con gli autori del policy making. Occorre mantenere uno sguardo d’insieme, tenere in considerazione tutta la filiera. Il sistema dei trasporti, quello energetico, l’industria».

La parola chiave può essere “resilienza”? «La resilienza deve essere la qualità principale di quello che chiamiamo “Sistema agroecologico”, che deve contrastare l’attuale sistema industriale. Pratiche agroecologiche ci permettono di lavorare per ridurre le dipendenze dalle fonti fossili, valorizzando le varietà vegetali, tutelando le biodiversità. Produrre un impatto inferiore come risposta alla produzione industriale, salvaguardare le razze autoctone, effettuare una buona gestione dei pascoli, facendo attenzione a un allevamento sostenibile, attento a tutti i dettagli, compresa la gestione dei reflui».

Un cambiamento di paradigma necessario prima dell’apocalisse energetica e ambientale? «È necessario cambiare paradigma per la distribuzione e il consumo, favorire la filiera corta, il consumo critico, l’agricoltura locale. Tornare a rispettare la stagionalità dei prodotti. Non ci concentriamo su un solo aspetto, del tipo:” mangiamo meno carne e più verdure”. Vogliamo presentare un approccio olistico».

Nello studio che presenterete con Mercalli si leggerà del vostro approccio

Esempio della collaborazione tra IndACo e Slow Food

alla conferenza sul clima di Bonn? «Sì, c’è lo studio della letteratura e l’analisi delle relazioni tra cibo e clima. Abbiamo studiato come il cibo subisce un cambiamento in base ai diversi fenomeni come la migrazione climatica, che è un problema sociale di portata mondiale, perché le zone a rischio so già colpite da povertà e malnutrizione. E non hanno grandi responsabilità contro gli sprechi. Potremmo sfamare tutto il pianeta senza produrre di più perché siamo di più, ma cambiando paradigma».

E questo sistema funziona? Proponete dei casi di studio? «Lavoriamo da anni con il progetto IndACo (indicatori ambientali e CO2) del Centro Studi UniSiena dell’Università di Siena. Loro calcolano diversi parametri come la carbon footprint dei prodotti aderenti alla nostra filiera e li paragonano ad altrettanti prodotti di marchi della produzione industriale. L’impatto dei nostri prodotti è sempre minore».

 

Intervista di Andrea Aufieri

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